FUNZIONALITA’ SACRA DELLA POESIA

Il Bardo, rappresentava il menestrello di corte, che componeva oralmente satire ed elogi, ispirandosi alle imprese eroiche dei loro re e dei.
Il File, era il poeta veggente, colui che conosceva la scrittura Ogham. Era lui che riusciva ad andare nelle regioni dell’astrale e comunicare con le forze sottili.
Quello che vedeva non apparteneva al nostro mondo, come lo si considera oggi, ma a quella parte energetica che amalgama tutto in un’unica grande ragnatela.
Vi era uno stile particolare di poesia chiamato “Roscanna”, che operava per la costruzione dell’incantesimo magico.
Esistono, secondo i detti druidici, due forme poetiche: di Superficie e di Sorgente.
La prima ha attinenza con tutti quegli oggetti animati e non, che fanno parte del mondo circostante; serve a disvelare la superficie energetica dell’Essere e quanto lo circonda. La seconda va a sondare le profondità dell’animo Umano, che è contemporaneamente
“qui, adesso” e “altrove”: la Sorgente eterna dalla quale il poeta trae la propria Ispirazione. Entrambe sono legate l’una all’altra da un filo sottilissimo argenteo impercettibile. Partendo dalla prima si può giungere alla seconda, attraverso una Forza interiore che lega i due Mondi; ma questo non è uno schema rigido.
Capita, a volte, che si parta già dalla seconda; dipende dall’individuo, dalla sua eredità storica, perché è possibile che abbia dentro di sé già quella forza necessaria che gli permette di andare ai livelli immediatamente superiori.
È con la poesia di Sorgente che la Luce dell’Anima esprime se stessa. Senza questa, quella di Superficie non si può manifestare, perché se non abbiamo un “messaggio” dall’alto, non possiamo interagire neanche col mondo fisico.
Se è vero che la Poesia è uno dei mezzi per comunicare i propri sentimenti, è pur vero che non rientra in quelle facoltà di “normale” lettura degli stati d’animo.
La sua funzione è principalmente catartica e liberatoria, ed è una delle più alte espressioni dell’Anima. Quando si compongono versi ci si mette in contatto diretto con il Mondo Superiore, a vari livelli collegati tra di loro, a tal punto che, quando si è “preda” dell’Illuminazione, tutto il resto assume un’importanza secondaria.
L’esser “preda” non è da confondersi con la perdita di coscienza o con l’invasamento; significa mettersi a disposizione di forze che interagiscono con tutto il nostro Essere, ma che si possono controllare.

È “un’operazione a due vasi” che avviene quando meno ce lo aspettiamo, nell’istante in cui l’Ispirazione scende per parlarci, attraverso, cioè, canali sottili.
Questo processo può avvenire a patto che ci si lasci coinvolgere dal Cuore, dalle leggi della parte energetica del nostro lo, tralasciando per un istante la parte razionale: il Cervello, il ragionamento, che ostacolano ed appesantiscono il “Sentire”.
Quando si scrive non ci si preoccupa che tutto abbia un senso, che le frasi siano in rima o che siano grammaticalmente corrette; a questo si penserà semmai al ritorno dal viaggio. In questi istanti (che possono variare da 10 secondi fino a 3 giorni, a seconda della persona), dobbiamo imparare a lasciarci andare, a metterci a completa disposizione di Lugh, bevendo dalla coppa attinta al nettare di Keridwen; è un momento di totale coinvolgimento con il mondo circostante, nel senso più alto dell’espressione; nessuna interferenza esterna può turbarci.
I momenti durante i quali componiamo possono anche essere brevi; in questo caso la nostra mano scrive velocemente, per non perdere le preziose parole che vengono dettate. È un fulmine a ciel sereno che, se lasciato passare è difficile da raggiungere perché va a perdersi nella grotta del dio del Tuono.
A volte può capitare di riuscire a recuperare la memoria di quello che è passato, ma sempre con grande difficoltà, perché la nostra Mente gioca un ruolo preponderante nelle nostre opinioni e nelle nostre decisioni.
In questo momento la poesia corre il rischio di venire snaturata, se non subentra immediatamente un’Ispirazione “ausiliaria”, che permette di ricongiungere le “due estremità del componimento” e concludere così l’opera.
Questo sembra un processo lungo e complicato ma, calato nella realtà di chi scrive, risulta
essere più semplice; nell’istante in cui si scrive tutto scorre velocemente, e noi non ce ne accorgiamo se non dopo aver terminato.
La Poesia, come la si intende comunemente oggi, non ha nulla a che vedere con quella dei tempi antichi.
Oggi, chiunque può scrivere poesie belle esteticamente e ricche di significati, ma pochi conoscono (e apprezzano) il vero significato della funzionalità delle Parole in essa contenute.
La poesia odierna non ha alcuna attinenza con quel mondo sovrano che i Bardi Cantavano e che i Filidh Sentivano.
E’ una parte di noi che non può scindersi dall’opera del resto dei poeti che bevono alla stessa fonte onnipresente e onnisciente.
La fonte perenne che turba le Anime colte, quelle Anime che anelano ai suoi Segreti ma che non possono giungervi se non dopo essersi bagnati fra le sue acque primordiali: Acque sorvegliate dal grande Drago. Molti, qui, si perdono.
Non perdiamoci nella folla di tutti i giorni, restiamo noi stessi e continuiamo a scrivere per gli dei e per la Natura, unica vera ricchezza.
Dobbiamo acquisire la capacità di saper ascoltare e abbracciare ogni espressione dell’Anima, senza pretendere di esserle superiori, perché sarebbe una perdita di energia preziosa.
L’impostazione dello schema mentale degli antichi è del tutto differente dalla forma mentis dell’uomo moderno.
È inutile, pertanto, stupirsi del fatto che a noi non riesca così facilmente come a loro, e che non sia per noi un gioco, ma uno sforzo non indifferente.
Proviamo a cantare qualche strofa, anche nel nostro dialetto, e vedremo con nostra grande sorpresa che, a distanza di tempo, riusciremo a ricordare tutto!
Ecco un utile esempio: alcuni versi che potremmo provare a cantare; magari all’inizio ci potrà bastare la versione in italiano, poi ognuno di noi cercherà di tradurla nel proprio dialetto o anche in gaelico (per chi si vorrà cimentare).
Comunque sia, ogni lingua è valida, perché è “viva”: vero è che più ci si addentra nel proprio “ricordo familiare”, più tale funzionalità aumenta:
Stati molteplici dell’Essere
“lo sono vento sul mare
onda sull’oceano,
il fragore del mare,
il toro dalle sette battaglie,
l’avvoltoio sulla roccia,
la goccia di rugiada.
lo sono il fiore più bello,
cinghiale ardimentoso,
salmone nel mare,
lago nella pianura,
la collina in un uomo,
una parola nell’arte,
la punta di un’arma.

Passiamo, ora, ad esaminare alcune forme poetiche, esempi di come un accadimento o un fenomeno, possano essere “tradotti” dalle facoltà interiori.
Soffermandoci sulle nostre filastrocche brianzole, possiamo giungere a capire e un contenuto esoterico, che certo nessuno di noi ha mai cercato di analizzare (perché non aveva mai pensato che potesse esistere).
Se da un lato certi componimenti si riferivano, apparentemente, ad un mondo “terreno”, da un altro essi erano in grado di risalire i vari gradini della via palingenetica attraverso vari modi e mondi Eterei.
Risulta quasi di difficile comprensione una lirica di W.B. Yeats o di Swift, letta in “tempi” diversi da quelli attuali; tuttavia, se ci accostiamo nei modi dovuti, riusciremo ad evincerne la natura sottile, quella radicata nel profondo di un’Anima celtica completa.
Ecco un esempio semplice, che a prima vista non sembra avere affinità con le “cose sovrane archetipali”; eppure leggendola attentamente, parola per parola, si riscontra la simbologia fra Uomo e Pianta (propria degli insegnamenti druidici) che, avendo stretto un sodalizio eterno, si integrano, alla fine della vita, in un un’unica grande espressione.
È una poesia semplice nel suo insieme, ma l’energia che essa racchiude è qualcosa che va ben al di là di uno studio puramente accademico.
Allo stesso modo si possono analizzare le altre poesie, di questo e di altri grandi autori.
FILASTROCCHE BRIANZOLE
Dan darandàn Luzìa,
sôtt a quel gabinott,
gh’è sôtt la vegia stria
che la fa balà i pigott!
questo è un componimento propiziatorio che le anziane sagge e conoscitrici dei benefici del bosco intonavano alle “bambine” che dovevano entrare nell’età adulta.
Un’altra filastrocca fa pensare alla stessa funzionalità.
… e la vegia Stria
tri fioeu la gh’eva
tri i a meteva in cuna
tri vestii de luna
tri a la fenestra
tri vestii de festa
tri al taurin
che fa balà la sciura Tarasin
Ed una simile fa ritornare alla memoria la funzione principe della Luna, unico e vero astro a cui tutto il ciclo della Natura fa riferimento.
Si pensi, infatti, che per tutte le coltivazioni ancora oggi i contadini tengono conto della fasi lunari.
Lirôn, lérôn, lanza,
la dona de castanza
tri fioeu la gh’eva;
tri i a mantegneva;
tri gh’i eva in cuna;
tri vestii de luna;
tri gh’i eva in lecc,
tri su par i tecc
Il contatto con l’Astrale, l’inverno, la rinascita del Sole e l’attrazione magnetica vengono magnificamente espresse in questa poesia/invocazione:
Càvara, càvara del Cincirin beli,
senza còa e senza peli,
còn la peli vòltada in còo:
vegn de dentar: ta mangiaròò!
La filastrocca che segue invece, rappresenta la gestualità rituale che l’Individuo deve compiere, quando accende il fuoco; non basta semplicemente prendere la legna pezzo per pezzo, ma si deve contemplare ogni singola azione.
Prima un legno, poi due, poi tre e così via fino alla fine, per permettere al Fuoco di prendere vita: fuoco che abbiamo dentro di noi e che alimentiamo col Vento, alito divino.
On legn al fa no el föch
Düü na fan ben pöch,
Trii, apena un fugarèli,
Quatar, un ftitich già bèll
Cinq un ftidéch propri sciuur
E ses, un «föch da gran fatur
Certamente le filastrocche prese in esame non sono le sole e le ultime da prendere in considerazione; tocca a ciascuno di noi andarle a scoprire nel cassettone dei ricordi infantili e provare ad analizzarle con più Coscienza, alla luce di una Idea interiore.
Le due invocazioni che seguono sono interpretazioni del tutto personali di uno stato mentale e di chi opera con le forze sottili: sono invocazioni, forse non perfette, ma che rispecchiano un vissuto del tutto personale.
Sono state composte in tempi brevi e in momenti particolari della vita.
Guarda in avanti ad Est
ll fiore degli anni
splende su questa gentile Anima
Il giorno del Sole
Musica dello Spirito
Ieri
Oggi
Domani
Sempre armonioso
Sempre in salute
Uno
Due
Tre
Il Cuore è ricolmo
Canto per tre volte
ho colpito la terra,
per ascoltare il sussulto dei Cervi;
per quattro volte
ho scagliato fendenti
su rocce rossastre,
per assaporare il rito degli Dei.
Nulla
su questa piana verdeggiante,
ha scalfito la sua bianca corazza
ricolma di Resine e Miele:
Magia
dell’Eterno nostro Canto,
mille e più volte.
Il solo fatto di pronunciare ogni singola parola, cadenzato a mò di mantra, costituisce un mezzo interessante per celebrare quello che i Celti chiamavano la “Luce interiore”.
Questa Luce si esprime secondo modi e tempi che pochi conoscono: sono strumenti comunicativi dell’Anima, che soddisfano esigenze interne alle quali nessuno ancora oggi ha dato una risposta.
È la nostra migliore arma, la più potente che esista: quella parte nascosta che giunge da un tempo senza tempo, e che fa capo alla nostra discesa in terra.
La Forza
è il Fuoco che è in mé,
Luce divina,
che nel Firmamento risiede
Così esordivano i poeti arcaici; con queste parole entravano nel bosco, camminavano sulle alte vette e si accostavano ai misteri della Natura interiore.
La Luce è l’origine di tutto, affermavano i saggi sacerdoti, e la Luce sarà la fine di questo mondo e inizierà quello nuovo.
Ma quale mondo ? Terreno o astrale ? Un mondo nuovo, che oggi è in gestazione. L’Uomo discende da Dio e dovrà risalirvi alla fine delle sue incarnazioni terrene. Quella forza che ci aiuta e che ci sorregge da sempre si chiama “Geal”, che significa “risplendente”, “sfolgorante”.
È interessante notare che i Celti primordiali praticavano la cremazione dei cadaveri, non la sepoltura, proprio per sfruttare il principio del Fuoco interiore che permetteva all’Individuo di rinascere a nuova vita, purificando se stesso.
Di grande rilievo e specchio dell’Idea Celtica fu, il filosofo medioevale Scoto Eriugena. Nel suo maggior scritto (in seguito censurato dalla Chiesa), il “De divisione naturae”, egli fece distinzione fra le varie realtà universali, affermando che l’Uomo ha in potenza la capacità di tornare a Dio e che il destino non lo può in alcun modo limitare.
Al contrario, è l’Uomo che con le sue azioni, con le sue scelte, (il libero arbitrio), segue la sua predestinazione, e si preclude altre strade.
Coloro i quali si risvegliano, possono giungere a capire quali armi possiedono e ad accelerare la propria via.
Tutti, alla fine torneranno ad essere puro spirito, affermava, negando quindi la dannazione eterna, dando una chiave in più.

(tratto dal libro “Mistero Celtico)

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